È il nostro ultimo giorno di permanenza ad İstanbul,
e ci lanciamo in una bella e lunga camminata che andrà a toccare i luoghi
più interessanti e non sempre turistici di questa interessante città.
La nostra prima tappa è il Gran Bazaar (Kapalı Çarşı, “mercato
chiuso”), un enorme quartiere formato da un dedalo di vie coperte da un enorme
tetto. All’interno, 4000 negozi ed almeno 10.000 turchi ti aspettano per convincerti
a comperare delle lampade, dei piatti, dei tappeti, dei dolci (compreso il
“Turkish Viagra”, ossia fichi e nocciole ricoperti di miele).
Oltre questo bazaar, abbastanza dedicato ai turisti, si arriva in Yağlikcılar
Caddesi, e proseguendo lungo Uzunçarşı Caddesi (“via del mercato
lungo”) si apre il vero mercato per i turchi, davvero molto più interessante
e conveniente; qui adocchiamo molte cose che speriamo di poter comprare l’ultimo
giorno della nostra vacanza, quando ritorneremo per gli acquisti finali.
Sempre lungo questa strada troviamo due moschee davvero molto belle: la Süleymaniye
Camii (“moschea di Solimano”) e la Rüstem Paşa Camii.
Sotto Solimano il Magnifico l’impero ebbe il massimo dello splendore, ed in
suo onore, tra il 1550 ed il 1557, venne creata, in cima ad una collina, la
moschea più grande di tutta la città. L’architetto è il più famoso di tutta
la storia turca, ossia Mimar Sinan, e se l’interno non è riccamente decorato
come la Moschea Blu, la sua dimensione è davvero spettacolare.
Mentre siamo ancora seduti sui tappetini, arriva dalla nostra destra una signora,
che offre a tutti (noi compresi) una zolletta di zucchero. Ringraziamo, anche
se purtroppo non capiamo a quale evento stiamo partecipando.
Vicino alla moschea vediamo la tomba di Solimano, ma non quella del grande
architetto! Schiviamo mille bimbi che chiedono soldi e cercano di vendere
fazzolettini, e mi lancio nella mia prima domanda in turco ad una signora
che si sta avvicinando a capo chino, cercando frettolosamente di mettere ordine
alle varie parole che ho memorizzato in questi pochi giorni: “Lüften,
Sinan Türbesi?” (Per favore, la tomba di Sinan?).
La signora improvvisamente alza lo sguardo, si illumina, e parte in una spiegazione
assolutamente incomprensibile ma che per fortuna accompagna con ampi gesti
della mano.
“Teşekkürler”, le dico per ringraziarla, e mentre il muezzin intona la
preghiera del Corano, che si diffonde per le vie grazie ai potenti altoparlanti
installati sui minareti, noi ci dirigiamo verso la tomba.
Il nostro frugale pranzo consiste in una ciambella di pane (simile al Bretzel
tedesco), del costo di 300.000 lire, ed in una pannocchia alla piastra (1.000.000
di lire), entrambe acquistate in strada presso un baracchino: in un tipico
quartiere turco è d’obbligo mangiare il quotidiano cibo dei turchi! Riprendiamo
la via del mercato per giungere ad un’altra splendida moschea, la Rüstem Paşa
Camii. Quasi non la notiamo, perché si trova sopra il livello della strada:
bisogna stare attenti a cercare una scala che sale verso l’alto per ammirare
questo tempio turco.
Forse più che mai, qui respiriamo la sacralità del luogo. Quasi non ci sono
turisti, e molti turchi sono inginocchiati vicino al mihrâb, la nicchia per
la preghiera rivolta verso la mecca; il silenzio e la bellezza delle maioliche
ci ammutoliscono, e quasi strisciamo via per non disturbare la preghiera.
L’ultima meta è la “moschea nuova”, la Yeni Cami. Non dice molto, ma è molto
bello il cartello, in inglese, vicino all’ingresso: spiega che bisogna entrare
senza scarpe, non far suonare il cellulare, e comportarsi in maniera adeguata;
a conclusione, anziché scrivere “Thank you for your cooperation” troneggia
un “Thank you for your coordination” che mi fa veramente spisciare dalle risa!
Si avvicina la sera, e quindi la nostra partenza.
La nostra idea iniziale era quella di farci una nottata abbastanza comoda
nei moderni treni turchi della TCDD, arrivando così ad Ankara; da là, in cinque
ore avremmo potuto raggiungere la Cappadocia. Qualche giorno prima, dunque,
andiamo nel quartiere di Eminönü, in stazione (la mitica stazione da cui partiva
il treno dell’Orient Express, con destinazione Parigi), ma, con grande disappunto,
non vediamo nessuno sportello aperto. L’unica persona che sembra lavorare
ad una scrivania ci vede, ma non ci considera minimamente; ad un addetto,
che sta passando di là, chiediamo come fare per comperare il biglietto, ma
ci dice solo “Problem” e se ne va senza ulteriori commenti.
Finalmente riusciamo a capire che tutti i treni da e per Ankara sono sospesi,
causa deragliamento sulla stessa linea avvenuto circa due settimane prima
della nostra partenza. L’unica soluzione è, dunque, un lungo viaggio notturno
in corriera (ditta Nevtur), che in 11 ore ci porterà in Cappadocia. Ma com’è
nata esattamente la Cappadocia? Stando alle informazioni (le uniche) giunteci
dal geografo Strabone (63 aC-24 dC), era una piccola regione chiamata dai
Persiani “Katpatuka”, ossia “terra dei bei cavalli”. L’antico testamento,
invece, chiama questa regione “Cappadocia”. In Turchia, il termine usato è
indifferentemente Cappadocia o Kapadokya. Sono le 20, si parte.